Accoglie e fidelizza i clienti, contribuisce in maniera significativa a determinare l’immagine del locale, può stimolare la creatività del gelatiere e, più in generale, ha un ruolo importante per la riuscita dell’attività. Il personale ha una funzione fondamentale per il successo di ogni impresa, a maggior ragione nelle piccole, dove sono richieste a tutti flessibilità e partecipazione. Saperlo gestire e soprattutto essere in grado di tenere alta la sua motivazione al lavoro è quindi indispensabile. A differenza di quanto accade ai manager delle grandi aziende, che seguono una formazione specifica per esercitare questa funzione, i gelatieri, spesso, se ne occupano facendo leva soltanto sul buon senso e sulla propria esperienza. Il risultato è che, a parte un breve periodo iniziale e nonostante il periodo di crisi che non è certo foriero di occasioni di lavoro e dovrebbe, quindi, indurre chi ne ha uno a impegnarsi a fondo per mantenerlo, accade spesso che i collaboratori finiscano per avere un calo delle proprie prestazioni. Perdono quindi efficienza e sollecitudine, occorre ripetere loro più volte quali sono i loro compiti e, spesso, suscitano in chi si avvale della loro collaborazione una grande irritazione. Inevitabilmente traspare e contribuisce a deteriorare il clima lavorativo, con il rischio di innescare una spirale che tende a continui peggioramenti. Ecco, allora, alcune considerazioni e consigli per evitare che questo accada e per poter contare su persone davvero motivate. In senso lato, la motivazione viene definita dagli psicologi come la spinta da cui dipendono l’avvio, l’ampiezza e la durata di un determinato comportamento finalizzato. È quindi uno stato interno che attiva, dirige e mantiene nel tempo le azioni compiute da una persona, anche nella sfera lavorativa.
Un collaboratore motivato è quello su cui tutti i datori di lavoro vorrebbero poter contare: è puntuale, prova soddisfazione nello svolgere i compiti che gli sono stati affidati, non guarda l’orologio perché si appassiona a quello che fa, è attento, attivo e partecipativo, considera l’attività in cui lavora con lo stesso senso di responsabilità che avrebbe se fosse la propria, si presta a fare quello che, di volta in volta, c’è da fare con grande flessibilità e, soprattutto, è “contagioso” perché trasmette a chi gli sta vicino entusiasmo e voglia di fare e di raggiungere sempre nuovi obiettivi. Questo comportamento proattivo non dipende soltanto dal collaboratore. In certe aziende, infatti, ci sono collaboratori che iniziano a lavorare con una grande motivazione per poi farla scemare a poco a poco. Al contrario ci sono collaboratori poco motivati che aumentano la loro motivazione con il passare del tempo. Indipendentemente dalle caratteristiche di ciascun collaboratore, quindi, ci sono comportamenti da parte dei “capi” che tendono a motivare i collaboratori mentre altri tendono a demotivarli. I comportamenti demotivanti sono diversi e, tendenzialmente, fanno riferimento a modalità relazionali e comunicative. A queste si aggiungono alcuni preconcetti fra i quali, il più diffuso è senz’altro considerare che l’unica spinta a indurre le persone a lavorare sia soltanto ricevere lo stipendio. Non si lavora solo per lo stipendio Gli economisti e gli psicologi hanno studiato a lungo quali sono le motivazioni per cui si lavora; certo, la retribuzione è un aspetto importante, ma non il solo. Le stesse teorie di Frederic Taylor che introdusse nelle aziende il lavoro a cottimo e i premi di produttività sono messe fortemente in discussione o, almeno, appaiono molto riduttive, anche perché la ragione per cui Taylor introdusse in azienda incentivi economici era la convinzione che un aumento di stipendio determinasse un incremento dello status del lavoratore e, perciò, della sua autostima. Già allora, quindi, consentire ai lavoratori di avere una maggiore disponibilità di denaro era un mezzo attraverso il quale raggiungere un determinato obiettivo e non un obiettivo fine a se stesso. Più recentemente Abraham Maslow, con la sua “piramide dei bisogni” ha dimostrato che a indurre le persone a lavorare non sono solo i “bisogni primari”, come mangiare, e comunque garantire la propria sopravvivenza. Ma anche di appartenenza, quindi lavorare per un’azienda con determinate caratteristiche in cui potersi riconoscere e nella quale avere un ruolo attivo, dal quale derivino autostima e realizzazione. Ancora più recentemente, Frederic Herzberg, con uno studio accurato, ha dimostrato che, in ambito lavorativo, ci sono fattori che ha definito “igienici” che non sono motivanti di per sé, ma che, se non vengono rispettati, producono malcontento e insoddisfazione. Si tratta della supervisione da parte dei superiori, delle politiche interne all’attività che dovrebbero essere condivise, delle condizioni di lavoro, come uno stipendio adeguato, orari di lavoro accettabili, il rispetto del riposo settimanale, dell’esistenza di buone relazioni con i superiori, i pari e i subordinati e lo status economico e sociale che il lavoro consente di raggiungere. Sempre Herzberg ha individuato i cosiddetti fattori “motivanti” quelli che inducono le persone a lavorare con una maggiore produttività. Si tratta del riconoscimento del proprio lavoro da parte dei superiori e dei pari, dell’avere delle responsabilità consone rispetto alle proprie competenze, delle opportunità di crescita professionale, dei risultati che si ottengono con il proprio lavoro e del lavoro in sé che dovrebbe essere vario e foriero di un buon coinvolgimento. Il testo proposto in due "puntate" è di Laura Barbasio, in collaborazione con la rivista Gelato Artigianale Continua! Nel prossimo contributo, "Gestione 2", presenteremo le 15 regole per motivare il personale. Per maggiori informazioni: • sulla rivista Gelato Artigianale: http://www.gelatoartigianale.it/ • sulla nostra azienda: http://www.zambonfrigotecnica.com/azienda.html Iscriviti alla nostra Newsletter per rimanere informato sulle nostre attività > QUI Comments are closed.
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