Vi proponiamo un interessante "pezzo" scritto dall'arch. Simone Gobbo dello studio demogo che, probabilmente, vi risulterà un po' fuori luogo. Tuttavia, crediamo che il contributo del nostro professionista possa essere utile sia a stimolare nuovi ragionamenti attorno ad una professione, ma anche a farvi trascorrere alcuni momenti di lettura originale in questo agosto uggioso (almeno nel nord della penisola italiana). Per chi volesse seguire il "ragionamento" che l'arch. Gobbo ha cominciato nel nostro sito vi consigliamo anche di leggere Minimalismo Game Over. Verso un idea di architettura mobile
Al X Congresso Internazionale di Architettura Moderna di Dubrovnick, Yona Friedman presenta il suo “Manifeste de l’architecture mobile”, un testo nel quale l’architetto ungherese mette in discussione definitivamente le ardimentose volontà pianificatorie della progettazione architettonica e urbanistica. L’idea demiurgica dell’architetto, designer, rispetto al controllo dell’oggetto finito, rispetto a quello che musicalmente i Clash chiamerebbero complete control, l’istanza di poter codificare il processo di azione e reazione di un opera d’architettura o di un oggetto una volta immersi in contesto culturale e sociale reale. Ritornando a quel congresso, al CIAM del 1956 (il penultimo prima del fallimento stesso dell’idea di CIAM), risulta decisivo il contributo soprattutto dei giovani del Team 10, si cominciò infatti a parlare di “architettura mobile” nel senso di “mobilità dell’abitare”. Con l’esempio della Ville spatiale, poi Friedman ha esposto – per la prima volta – i principi di un’architettura capace di comprendere le continue trasformazioni che caratterizzano la “mobilità sociale” e basata su “infrastrutture” che prevedono abitazioni e norme urbanistiche passibili di essere create e ricreate, a secondo dell’esigenza degli abitanti e dei residenti. La discussione intorno alla mobilità dell’architettura e poi della città, inevitabilmente si è tradotta lungo prospettive orientate sui punti di fuga dell’utopia: la walking city degli Archigram, alle sperimentazioni di Hans Hallein, alle opere di Walter Picherl, che attraverso la sua scultura e le sue TV-Helmet (Portable living room) è probabilmente riuscito a sintetizzare il rapporto tra individuo-spazi-mobilità. Personalmente provo una profonda attrazione per il lavoro di Friedman, per la capacità di mantenere un certo pragmatismo rispetto alla realtà, riconducibile forse alla sua storia personale, alla sua attenzione per l’autoregolazione degli abitanti da attribuibile alla sua esperienza diretta di profugo e senzatetto, di uomo sfuggito alla guerra, ai rastrellamenti nazisti, dapprima nelle città europee disastrate dalla guerra e poi in Israele, dove nei primi anni di vita dello Stato sbarcavano ogni giorno migliaia di persone con conseguenti problemi di alloggio. Credo che questa dimensione, della promiscuità, della produzione di idee altamente adattabili per architetture di emergenza, sia una delle cifre migliori del filone culturale di quella generazione culturale di progettisti, Friedman ha trasformato l’atrocità della guerra, i limiti di ragionamento imposti in un utopia pragmatica. Al giorno d’oggi i concetti limitati e le definizioni tradizionali dell’architettura e dei suoi strumenti non hanno più molto valore. È assai più utile dedicarsi all’ambiente nella sua totalità e a tutti i media che lo definiscono. Alla televisione come al clima artificiale, ai trasporti come all’abbigliamento, al telefono e all’abitazione, agli elementi mobili fragili, a parti di città dimenticate dalla cultura del ‘900. Viviamo una guerra silenziosa, sottotraccia, celata sotto i panni della crisi economica. Questa crisi è prima di tutto culturale, sociale, è crisi di idee, di progetti vicini alla sensibilità e alla capacità mostrata da Friedman, si tratta di operare nel territorio abbandonato, di risvegliare la nostra sensibilità di uomini, di guardare dentro l’abisso, dentro i vuoti lasciati dal fallimento di un intera generazione, di costruire il futuro iniziando da piccole utopie quotidiane, disegnando ancora lo spazio - disegnare inteso come segnare due volte - nuovamente cercando il corrispettivo di quel coraggio mostrato da Friedman nel nostro lavoro, ad ogni livello dal designer, all’imprenditore, all’utilizzatore, al costruttore, è un processo che necessità di partecipazione reale, quel coinvolgimento tipico dei momenti di forte emergenza. Vorrei sottolineare come l’espansione della sfera umana e degli strumenti che definiscono il mondo circostante va ben oltre una definizione architettonica. Oggi tutto diventa in qualche modo architettura. L’“architettura” è uno di questi media, e non possiamo approcciarci con gli schemi rigidi e le visione ingessate prodotte dall’illusione pre-crisi, ne lasciarci andare alle derive inconcludenti di quella cultura radicale seduttivamente “seventy”, dobbiamo lavorare con gli strumenti del nostro tempo immersi profondamente nella realtà, dialogando e estendendo la cultura del progetto ad ogni livello, abbandonare la psicosi vintage generale - perché non dedicare i nostri sforzi al nostro tempo? - senza rimpiangere le epoche passate dentro le nostre personali collezioni domestiche di frammenti imbalsamati, lavorare a “utopie realizzabili”, trovare la nostra autosufficienza culturale.
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