“Credo questo sia l’inizio, e questa crisi ci aiuterà probabilmente a migliorare e a spingere il ragionamento ancora in avanti rispetto al design, è necessario farlo in sinergia con le più importanti realtà aziendali del nostro territorio, offrendosi come piattaforma progettuale rispetto all’innovazione e alla ricerca attiva.” Con queste sagge parole di Simone Gobbo dello studio d’architettura demogo di Treviso diamo oggi inizio a una nuova collaborazione. Questo giovane, ma già interessante studio di architettura ci ha offerto di lavorare ad alcuni nuovi progetti. La collaborazione, come si evince dalle parole dell’architetto Gobbo, c’è stata offerta con l’intento di ragionare in termini d’innovazione e di futuro nell’ambito dell’interior design per locali pubblici o, più in generale, del design nel luogo di pubblica fruizione. Abbiamo colto con favore questa stimolante proposta nonostante la nostra azienda abbia già importanti relazioni con diversi studi di architettura poiché crediamo fortemente nella necessità di “provocare” e farci “provocare” da nuove iniziative. Crediamo soprattutto che la nostra quarantennale esperienza, abbinata a nuove o diverse visioni, possa generare una spinta proficua nell’affrontare la complessità contemporanea. Minimalismo Game Over di Simone Gobbo (demogo studio di archittura) Nel 1965 Richars Wollheim pubblica all’interno della rivista Arts Magazine un articolo dal titolo “Minimal Arts”, è l’atto che sancisce l’inizio e allo stesso tempo la fine di un avanguardia. Il consolidamento e le fasi di coagulazione dei flussi legati all’operazione riduzionista sono i momenti in cui le spinte della controtendenza iniziano ad esaurirsi, e così quando un movimento emerge in superficie inevitabilmente da inizio ad una seconda fase identificabile con la contaminazione e la diffusione di massa attraverso oggetti, spazi, abiti, design e in generale un’estetica condivisa. Il minimalismo allargandosi a macchia d’olio è entrato nelle nostre case, ha occupato gli interni delle caffetterie, si è trasformato in arredi urbani scarni e monocromi, dentro gli abitacoli delle nostre automobili, ha stretto i nostri polsi nei quadranti slim dei nostri orologi, è finito nei cellullari dentro le nostre tasche , lungo i profili affilati dei nostri monitor, ci ha trapassati, ci ha reso cavalieri del riduzionismo mentre abbattevamo il passato nei processi di trasformazione e riallestimento dei vuoti della città. E così mentre cambiavamo lo spazio e la superficie delle cose, siamo cambiati anche noi, abbiamo ridotto all’osso ogni cosa fedeli a quel “less is more” probabilmente frainteso. Ogni maledetto caffè, bar, brasserie, pub, ristorante, è diventato una sala operatoria dalle luci bianco ghiaccio al neon, da Parigi, Roma, Milano, New York, Berlino fino alla periferia dell’ultimo locale di suburbia, ogni modanatura è stata opportunamente rettificata, ogni accenno di indipendenza o asincronia riallineato perfettamente sulle mensole a spigolo vivo in rovere sbiancato.
Il minimalismo aveva dunque vinto, e proprio mentre era pronto a scagliare l’ultimo colpo alla bestia morente dell’ecclettismo si è rialzata improvvisamente, ha abbandonato indifferente la scena, è scomparsa per qualche tempo, ha atteso in silenzio che la sbornia riduzionista venisse riassorbita per poi rientrare in scena infiltrandosi nelle performance artistiche, nel nuovo pop veicolato dei social, spinta dalla crisi economica europea ha spostato le ricerche sul melting pop dell’abitare in comunità, sull’uso complesso dei materiali, sul design user friendly, ci siamo improvvisamente tutti riscoperti amanti della natura, attenti alla sostenibilità ambientali, desiderosi di colorare nuovamente il mondo abbiamo sostituito quel “less is more” con “less is bore”. Come sarà il design del nostro tempo? Quale corrente avrà il sopravvento? Potremmo parlare ancora di stile dominante? Io credo che in realtà, il nostro tempo, il tempo della complessità, abbia raggiunto la maturità per individuare traiettorie maggiormente adattabili, dotate di un elevato grado di flessibilità, altamente site specific, in grado di assumere una complessità traducibile nei bisogni reali del contemporaneo. Abbiamo bisogno di un design multiforme, multicolor, multimaterial, un design più simile alla realtà, maggiormente contaminato, più umanamente impreciso, con una tecnologia friendly, in grado davvero di essere un valore aggiunto e non un semplice orpello estetico. Dovremmo mostrare attenzione per una visione focale grandangolare, cogliere la molteplicità della vita urbana, non ridurre brutalmente, ma semplificare e allargare contemporaneamente la percezione, costruire sinergia tra progettisti e il Know how delle aziende più intraprendenti, pensare al futuro energetico, funzionale, senza smettere di ridisegnare la realtà, essere anche noi capaci di modulare progettualmente le nostre azioni. Credo questo sia l’inizio, e questa crisi ci aiuterà probabilmente a migliorare e a spingere il ragionamento ancora in avanti rispetto al design, è necessario farlo in sinergia con le più importanti realtà aziendali del nostro territorio, offrendosi come piattaforma progettuale rispetto all’innovazione e alla ricerca attiva. Maggiori informazioni sullo studio demogo le potete trovare QUI
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