Il settore della gelateria è fondamentalmente stagionale o, perlomeno, lo è la ricerca di personale che si concentra alla fine dell’inverno. Ogni anno, si assiste alle lamentele della mancanza di personale, soprattutto quello di tipo non qualificato. I salari proposti sono al minimo sindacale e viene richiesto, spesso, il sacrificio del fine settimana, dove si concentra maggiormente il carico di lavoro. Negli ultimi tempi tuttavia, le condizioni di base del lavoro hanno subito dei cambiamenti, anche notevoli: dalla primavera 2020 molte famiglie hanno visto stravolta la loro quotidianità, costrette ad adottare nuovi stili di vita e adattarsi agli spazi che cambiano. Molte case sono diventate ufficio, scuola, palestra, cinema e ristorante in un solo luogo. È inevitabile che il nuovo equilibrio tra lavoro e vita privata non sia ancora stato trovato, probabilmente l’incertezza ed i cambiamenti repentini sono la nuova normalità che ci accompagnerà almeno per qualche tempo. Quello che è certo è che in questa transizione, il lavoro stesso sembra perdere di importanza nel confronto con altre priorità. Eliminando l’ufficio inteso come presenza fisica nella vita di molte famiglie (ma non tutte!), la pandemia potrebbe aver declassato il lavoro come fulcro dell’identità. La pandemia ha peggiorato questa crisi perché moltissime persone hanno avuto un momento di riflessione che le hanno fatte uscire dalla retorica del “working”, l’idea che per realizzarsi si debba dedicare l’intera vita al lavoro, domandandosi “vivo per lavorare o lavoro per vivere?”.cPer tali ragioni hanno deciso di lasciare il proprio impiego per trovarne uno migliore: più appagante, meglio retribuito, con maggiore flessibilità. Proprio il contrario del lavoro in gelateria, indicato pocanzi. Negli Stati Uniti hanno coniato un nuovo termine “great resegnation”, ossia lo stragrande aumento di dimissioni volontarie da parte dei lavoratori statunitensi che ricercano attualmente lavori con due caratteristiche specifiche: salari alti e flessibilità. In Italia, la carenza di personale ha colpito principalmente le aziende stagionali, le più esposte a situazioni critiche. Tra i settori per cui l’interesse è rimasto sostanzialmente immutato, spicca quello dell’ospitalità e del turismo, che ha subito in maniera particolarmente pesante la crisi; con le sue mansioni ripetitive, gli orari stressanti ed i bassi salari non è riuscito ad attirare nuovi lavoratori, nonostante la presenza di milioni di disoccupati e le competenze richieste piuttosto basse. Una situazione con condizioni simili anzi, addirittura peggiori si riscontrano proprio nel settore della ristorazione. In Italia la crisi è conclamata, la Federazione Italiana Pubblici Esercizi (FIPE) ha affermato che alla ripartenza, la scorsa estate, mancavano 150.000 addetti, di cui solo 30.000 stagionali. La crisi da Covid-19 potrebbe infatti aver accelerato un fenomeno di ricollocamento della forza lavoro, creando le condizioni affinché i lavoratori scelgano (o siano costretti a farlo) di migrare da settori in difficoltà (ristorazione e turismo) a settori in crescita (salute, nuove tecnologie, logistica). E se la riallocazione stesse avvenendo invece, tra professioni? In altre parole, con il Covid-19 gli italiani stanno cercando di cambiare mestiere? La distinzione tra settore e professione è molto importante quando si tratta di descrivere le caratteristiche di un determinato posto di lavoro: il settore dipende dal bene o dal servizio erogato dall’azienda presso cui il lavoratore si trova, la professione invece dipende dalle mansioni che svolge. Il cambio di paradigma sostenuto da una crisi globale porterà ad una vera e propria trasformazione sociale causata della mancanza di personale? Tutti ci aspettavamo una crisi occupazionale, migliaia di licenziamenti ed invece ci troviamo di fronte a dimissioni. Paradossale, no? Molti operatori lamentano l’eccessiva presenza delle misure assistenziali ma, a mio parere, la situazione è ben più articolata e cercherò di fare una raccolta dei principali driver:
Sicuramente le attività a gestione familiare sono quelle che hanno più sofferto l’eventuale riduzione o mancanza di liquidità, per cui fanno fatica ad attrarre nuovo personale con la sola “vile pecunia”. Questa crisi dovrebbe aiutare molti “imprenditori” ad offrire un miglioramento delle condizioni di lavoro nel locale e del trattamento del personale che vi lavora. L’imprenditore dovrebbe essere più disponibile a proporre condizioni tipo:
Il lavoratore ha maturato una consapevolezza, durante la pandemia, ovvero che oltre allo stipendio rientrano in gioco anche altre variabili quale il benessere sul lavoro. La produttività delle risorse umane verrà valutata grazie ad azioni di:
Troppo spesso ci si focalizza sullo stipendio dimenticando che in gran parte dei casi è solo una delle variabili decisionali, in particolare per i giovani. Gli imprenditori devono cambiare il loro rapporto coi loro collaboratori. Non è una scelta, bensì un obbligo per la sopravvivenza dell’impresa. Non dimenticando che vale per tutti il detto: “si vive una volta sola”. Ora, più di prima, si cerca un senso in quello che si fa, e soprattutto una migliore qualità di vita. ll testo proposto è a cura di Renato Romano della rivista Gelato Artigianaler
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